Domenica 3 Novembre 2019 ho corso la Maratona di New York, la mia terza maratona. Parlo spesso di corsa e maratone nei miei articoli – si sa che noi runner siamo un pò fissati, ma è anche un dato oggettivo come la corsa (e lo sport più in generale) sia una splendida metafora della vita. Questa maratona mi ha portata a riflettere sul tempo e condivido volentieri in queste righe parte del viaggio (fisico ed emotivo) che ho percorso.

Tutto inizia a casa della mia allenatrice, collaboratrice ma soprattutto amica Julia. Si parlava di tante cose, inclusi alcuni obiettivi di vita personali. Conoscendomi da anni, sa perfettamente come stuzzicarmi e parlando del mio (all’epoca) obiettivo mi ha detto: “Se va, va. Se non va, vai a New York”. Così, qualche settimana dopo è iniziato il mio percorso verso la maratona più famosa del mondo: una telefonata (per combinazione arrivata il 3 Maggio, proprio 6 mesi prima della gara), una notizia, il faro che si spegne su un obiettivo per riaccendersi su un altro… così è la vita. Cose che possiamo controllare e cose che non possiamo controllare, cercando di non essere mai domani nello stesso punto in cui siamo oggi ma un pò più avanti migliorando noi stessi senza paragonarci agli altri e facendo in modo di farci spingere in alto anche da ciò che potenzialmente potrebbe farci restare a terra.

Avevo nascosto le scarpe da corsa da parecchi mesi ed avevo 6 mesi di tempo per raggiungere l’obiettivo. Il tempo, che può essere tanto o poco a seconda di come lo si usa. Piccoli obiettivi, sempre scanditi dal tempo: i primi allenamenti goffi in cui le gambe sembravano pesare tonnellate ed il fiato non voleva uscire dai polmoni, le prime avvisaglie di un’estate che sarebbe stata caldissima, il primo tassello di riuscire a correre 10km entro X minuti – perchè è vero che non siamo professionisti, ma un minimo di programmazione deve essere fatta. Riesco in qualche modo a centrare i miei 10km entro X minuti in una torrida serata di inizio Giugno, ad una gara alla quale arrivo con poca energia mentale ma durante la quale incontro Julia ed alcune amiche la cui grinta mi spinge timidamente al traguardo. Ok, si può procedere. Qualche giorno dopo compilo i moduli e le pratiche necessarie e mi iscrivo: ricordo ancora ogni singolo minuto della giornata in cui mi arrivano le credenziali personali per il sito della gara e faccio una serie di “click” che promettono di portarmi, dopo una manciata di settimane, dal ponte di Verrazzano a Staten Island a Central Park. Niente però è scontato, serve umiltà e serve tempo. 16 settimane, 64 allenamenti scanditi da 64 post-it appesi dietro la porta della camera da letto perchè l’obiettivo resti umile, ma sempre ben visibile. A metà luglio stacco il post-it numero 64 (si fa il conto alla rovescia) e in 4 mesi posso confessare di non aver saltato nemmeno un allenamento: ho messo in queste 16 settimane tutto il bagaglio dei mesi precedenti che mi sentivo addosso e ho voluto onorarlo riuscendo a non saltare nemmeno un allenamento. Ognuno di noi corre a velocità diverse, così come ognuno di noi vive in modo diverso. Allo stesso modo, gli allenamenti seguono impostazioni e velocità diverse perchè se è pur vero che non siamo professionisti e che dovremmo in teoria pensare a divertirci è anche vero che per correre una distanza di 42,195km (ma anche meno) un’idea di tempo devi averla.
Quante volte in questi mesi mi sono sentita dire “In quanto la vuoi chiudere?”; “A quanto hai corso oggi?”; “A quanto fai le ripetute? (n.d.A. tratti effettuati a intensità definite, seguite da un recupero)”; “Ma tu hai fatto tot secondi/minuti in più/in meno di me ieri…”. Quanto, secondi, minuti. Il “cronometro” in allenamento è importante, ma quanto apprezzo quelle uscite in cui posso correre “a sensazione”: sono quelle in cui rendo meglio. Devi imparare a rispettare i tempi è vero, ma devi soprattutto imparare a rispettare il tempo del riposo, il tempo del tuo corpo e soprattutto il tuo tempo. Qualcuno mi chiedeva dove trovassi il tempo per allenarmi, con due lavori e la mia vita da gestire. Volere è potere, e ci sono riuscita. Un’amica al momento dell’iscrizione mi ha scritto “Beh, dai… almeno vedremo tutte le albe” e così è stato: il sacrificio di puntare la sveglia prima delle 6 anche in vacanza ripagato dal sole che sorge sul mare o dietro l’Arco della Pace e dall’energia guadagnata che dura per tutta la giornata.

Infine eccomi al 3 Novembre 2019. La sveglia suona alle 4:00 (oltre al cellulare, avevo chi dall’Italia mi ha svegliata con un messaggio per paura di non sentire la sveglia), alle 5:45 parte il pullman, alle 6:45 circa arrivo a Staten Island dove mi aspetta un’attesa di quasi 4 ore perchè siamo quasi 60000 e le partenze sono scaglionate. Fa freddo, sono vestita a strati e riesco a restare calda ma 4 ore sono un tempo lungo. E’ un’esperienza anche questa. Mentre mi rifocillo e faccio un pò di training mentale arriva l’orario di partenza degli atleti disabili: sono tantissimi… carrozzine, handbike, stampelle… e mi rendo conto di quanto sia facile e scontato per chi è in salute dire “Non ce la faccio” e della lezione di vita alla quale sto assistendo. Alcuni di questi atleti li rivedo sul percorso, e nonostante il marasma di tifo e persone di tutte le nazionalità, etnie e religioni riesco ad avvicinarmi e a “dar loro il 5”. Finalmente parto, con l’obiettivo di godermi questa fantastica esperienza, assorbire il tifo, divertirmi, lasciare sul percorso quello che mi sono portata dietro e… arrivare al traguardo in un determinato tempo: inutile dire il contrario, avevo un obiettivo e con Julia ho programmato la gestione della gara in funzione di questo. Sono stata perfetta fino al km 32, anche perchè in questa gara c’è talmente tanta partecipazione e tifo da gente comune, band che suonano e cantano, bambini che ti battono le mani, persone con cartelli divertenti ed incoraggianti che non puoi che essere trascinata sul percorso da Staten Island attraverso Brooklyn, Queens e Bronx, passando e tornando a Manhattan. Inoltre, sapevo di avere un nutrito gruppo di tifosi sul posto e da casa che mi seguiva passo passo e che non ringrazierò mai abbastanza. Con alcune di queste persone ho condiviso ben più che la semplice preparazione e hanno corso assieme a me. Al km 32 un problema muscolare mi ha obbligata a rallentare. Ovviamente, essendo stata precisa fino ad allora, ho avuto alcuni minuti di delusione. Ma poi, mentre camminavo per un centinaio di metri, ho riflettuto. Ogni tanto sembra che rallentare sia un gesto di debolezza o che andare piano sia quasi un’onta. Rallentare ed andare più piano sono stati per me un momento di consapevolezza, nonostante l’ovvia crisi iniziale: consapevolezza del mio corpo, che chiedeva aiuto in quel momento; consapevolezza di essere comunque sul percorso di gara; consapevolezza che stavo ugualmente “lasciando sul percorso” il mio bagaglio personale; consapevolezza che lasciando al mio corpo ed alla mia mente il tempo di recuperare sarei arrivata poco dopo al traguardo, un traguardo che per me ha significato moltissimo; consapevolezza che da quel traguardo sarei ripartita. Come ha scritto Bart Yasso nel suo libro My life on the run, non sono nè la gloria né la meta l’obiettivo ma il viaggio stesso e le possibilità che esso ti offre di guardare avanti. Forse è proprio vero che dai momenti di crisi sorgono le opportunità, che chi cade sette volte può rialzarsi otto, che l’unico modo per superare una prova è attraversarla, che se accetti di fare un lavoro di introspezione forse scopri cose di te che pensavi non possibili ma che magari ti daranno il coraggio di “provarci sempre”. Solo chi rischia può ottenere, solo chi gioca può vincere, solo chi osa può avere opportunità, solo chi prova sentimenti forti può trovare il coraggio di viverli senza paura. Le cose e le esperienze nella vita vanno dette e vissute per come sono, senza vergogna. E con il giusto tempo, sempre.
